Siamo in un pub a notte inoltrata. Ricordando i bei momenti passati nell’arco di questa lunga serata di evasione, qualcuno propone il brindisi: «Mille serate come questa!» Le pinte si alzano al cielo in un tintinnare di vetri. Era intorno al tramonto quando siamo partiti, in macchina, dalla grande città. Un viaggio suburbano attraverso periferie, rotonde e villette a schiera. Niente autostrade; eravamo diretti verso un luogo vicino ma dimenticato, la vera culla dello sci, di cui molti sciatori sparati a 130 all’ora verso distanti mega-stazioni nemmeno conoscono l’esistenza.
La storia (con la “s” minuscola) narra che qui, nel lontano 1897, si svolse la prima gita con sci. L’iniziativa era partita da un ingegnere svizzero, il mitico Adolfo Kind, giunto a Torino per aprire una fabbrica di lucignoli in riva al Po. Costui, appassionato di montagna, aveva iniziato a esercitarsi sui prati innevati del parco del Valentino nell’uso di due strani oggetti di legno che mai prima di allora si erano visti in Italia: gli sci che Kind si era fatto mandare appositamente dalla Norvegia. Dopo le prime esercitazioni in città e sulla collina torinese (evidentemente allora nevicava più di adesso), era venuto il momento di ampliare il raggio delle escursioni e di provare gli attrezzi per la prima volta in montagna. La scelta cadde sulla Val Sangone per la vicinanza e soprattutto perché all’epoca c’era un trenino per pendolari che da Via Sacchi, all’angolo con Corso Sommeiller, portava fino a Giaveno. Da lì, bastavano pochi passi per uscire dal paese e raggiungere il Pra Fieul, alle pendici della Punta dell’Aquila, dove dislivelli e pendii consentivano salite, curve e discese più evolute di quanto si potesse fare a Torino.
In seguito, con l’avvento dell’automobile i campi da gioco degli sciatori torinesi si estesero notevolmente, ma l’Aquila restò sempre uno dei luoghi più battuti. La base delle gite si spostò verso l’alto fino alla frazione di Maddalene (741 m.), comodamente raggiungibile dalle ruote gommate, il che accorciava notevolmente la salita fino ai 2155 m. della vetta. Era ancora l’epoca delle pelli di foca, ma foca vera, per le classi più agiate e delle strisce di juta legate sotto gli sci per i meno abbienti.
Negli anni ’60 lo sviluppo del turismo invernale subì una drastica accelerazione anche in questa valle minore. Venne l’epoca dello sci su pista; il divertimento della discesa da cui si estirpava la fatica della salita sfrattando verso altre zone quelli che da allora in poi vennero definiti scialpinisti. Più in alto delle Maddalene, all’Alpe Colombino (1261 m.), furono costruite delle moderne infrastrutture sciistiche: un mega-albergo (per i parametri della Val Sangone), skilift baby e avveniristica seggiovia che portava alla Punta delle Lese (1857 m.) prima di quella serie di lunghi pianori e brevi pendii che conducono in punta all’Aquila. Viene da chiedersi se sia stata la diminuzione delle nevicate e l’aumento delle temperature a costringere gli sciatori a salire più in alto con la macchina, oppure se sia stato l’utilizzo delle automobili a causare l’innalzamento del limite delle nevi. In ogni caso siamo entrati in un circolo vizioso.
È già buio quando raggiungiamo il parcheggio davanti all’albergo, prima e unica costruzione moderna incombente sul fondovalle sottostante. Una baracca di legno porta ancora l’insegna “Sci Club Val Sangone”. Da una parte si intravede la pista del baby; poco più in là parte la strada innevata che imbocchiamo diretti verso l’alto. La luna non è ancora sorta, ma le luci dell’albergo ci guidano lungo i tornanti sulla neve dura e ghiacciata. Ben presto raggiungiamo la dorsale che, seguita da un traverso pianeggiante, ci conduce all’ampio anfiteatro sotto la punta delle Lese. Intanto la luna si è alzata e illumina i tralicci della seggiovia, punti di una linea immaginaria che percorre la massima pendenza del pendio. La fioca luminosità getta una luce sinistra sull’intero vallone. Le strutture metalliche sono arrugginite a causa del disuso, in alto sorge la stazione di arrivo completamente in abbandono. Abbiamo attraversato in macchina le periferie dell’era post-industriale, qui ci aspetta un panorama da epoca post-turistica. Dopo alcuni inverni avari di neve e a causa dello sviluppo vorticoso di comprensori sciistici “griffati” nelle più ampie valli circostanti, la piccola stazione fu costretta a chiudere. Ora le pendici della Punta dell’Aquila sono tornati a essere terreno adatto a scialpinisti e ciaspolatori che non temono la fatica della salita. È anche consigliato forti di spirito per non deprimersi di fronte a questo scempio. Quasi quasi è meglio venire di notte.
Proseguiamo oltre l’arrivo della seggiovia; nell’ultimo tratto si percorre una piccola crestina affilata che conduce alla croce. Dagli zaini spuntano buoni panini, bottiglie di vino e un panettone fuori stagione. Ora la luna è alta nel cielo e ci illuminerà la discesa verso valle che si concluderà al bar The Big Ben. A modo nostro abbiamo vissuto un sabato sera all’insegna dell’evasione prima di tornare nel mondo che ci appartiene, fatto di pub inglesi e centri commerciali.
La storia (con la “s” minuscola) narra che qui, nel lontano 1897, si svolse la prima gita con sci. L’iniziativa era partita da un ingegnere svizzero, il mitico Adolfo Kind, giunto a Torino per aprire una fabbrica di lucignoli in riva al Po. Costui, appassionato di montagna, aveva iniziato a esercitarsi sui prati innevati del parco del Valentino nell’uso di due strani oggetti di legno che mai prima di allora si erano visti in Italia: gli sci che Kind si era fatto mandare appositamente dalla Norvegia. Dopo le prime esercitazioni in città e sulla collina torinese (evidentemente allora nevicava più di adesso), era venuto il momento di ampliare il raggio delle escursioni e di provare gli attrezzi per la prima volta in montagna. La scelta cadde sulla Val Sangone per la vicinanza e soprattutto perché all’epoca c’era un trenino per pendolari che da Via Sacchi, all’angolo con Corso Sommeiller, portava fino a Giaveno. Da lì, bastavano pochi passi per uscire dal paese e raggiungere il Pra Fieul, alle pendici della Punta dell’Aquila, dove dislivelli e pendii consentivano salite, curve e discese più evolute di quanto si potesse fare a Torino.
In seguito, con l’avvento dell’automobile i campi da gioco degli sciatori torinesi si estesero notevolmente, ma l’Aquila restò sempre uno dei luoghi più battuti. La base delle gite si spostò verso l’alto fino alla frazione di Maddalene (741 m.), comodamente raggiungibile dalle ruote gommate, il che accorciava notevolmente la salita fino ai 2155 m. della vetta. Era ancora l’epoca delle pelli di foca, ma foca vera, per le classi più agiate e delle strisce di juta legate sotto gli sci per i meno abbienti.
Negli anni ’60 lo sviluppo del turismo invernale subì una drastica accelerazione anche in questa valle minore. Venne l’epoca dello sci su pista; il divertimento della discesa da cui si estirpava la fatica della salita sfrattando verso altre zone quelli che da allora in poi vennero definiti scialpinisti. Più in alto delle Maddalene, all’Alpe Colombino (1261 m.), furono costruite delle moderne infrastrutture sciistiche: un mega-albergo (per i parametri della Val Sangone), skilift baby e avveniristica seggiovia che portava alla Punta delle Lese (1857 m.) prima di quella serie di lunghi pianori e brevi pendii che conducono in punta all’Aquila. Viene da chiedersi se sia stata la diminuzione delle nevicate e l’aumento delle temperature a costringere gli sciatori a salire più in alto con la macchina, oppure se sia stato l’utilizzo delle automobili a causare l’innalzamento del limite delle nevi. In ogni caso siamo entrati in un circolo vizioso.
È già buio quando raggiungiamo il parcheggio davanti all’albergo, prima e unica costruzione moderna incombente sul fondovalle sottostante. Una baracca di legno porta ancora l’insegna “Sci Club Val Sangone”. Da una parte si intravede la pista del baby; poco più in là parte la strada innevata che imbocchiamo diretti verso l’alto. La luna non è ancora sorta, ma le luci dell’albergo ci guidano lungo i tornanti sulla neve dura e ghiacciata. Ben presto raggiungiamo la dorsale che, seguita da un traverso pianeggiante, ci conduce all’ampio anfiteatro sotto la punta delle Lese. Intanto la luna si è alzata e illumina i tralicci della seggiovia, punti di una linea immaginaria che percorre la massima pendenza del pendio. La fioca luminosità getta una luce sinistra sull’intero vallone. Le strutture metalliche sono arrugginite a causa del disuso, in alto sorge la stazione di arrivo completamente in abbandono. Abbiamo attraversato in macchina le periferie dell’era post-industriale, qui ci aspetta un panorama da epoca post-turistica. Dopo alcuni inverni avari di neve e a causa dello sviluppo vorticoso di comprensori sciistici “griffati” nelle più ampie valli circostanti, la piccola stazione fu costretta a chiudere. Ora le pendici della Punta dell’Aquila sono tornati a essere terreno adatto a scialpinisti e ciaspolatori che non temono la fatica della salita. È anche consigliato forti di spirito per non deprimersi di fronte a questo scempio. Quasi quasi è meglio venire di notte.
Proseguiamo oltre l’arrivo della seggiovia; nell’ultimo tratto si percorre una piccola crestina affilata che conduce alla croce. Dagli zaini spuntano buoni panini, bottiglie di vino e un panettone fuori stagione. Ora la luna è alta nel cielo e ci illuminerà la discesa verso valle che si concluderà al bar The Big Ben. A modo nostro abbiamo vissuto un sabato sera all’insegna dell’evasione prima di tornare nel mondo che ci appartiene, fatto di pub inglesi e centri commerciali.
Le splendide foto di Cikus su
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