venerdì 12 settembre 2008

DIARI DELL'ALTRO MONDO 3




Il semplice e il complicato
Ovvero l’Alto nell’Altro Mondo
Pays Dogon, Mali. Una falesia lunga circa 200 chilometri e alta oltre 150 metri taglia il sahel subsahariano in direzione sudest-nordovest. La roccia è un’arenaria molto solida di un vivo colore rosso, giallo e ocra. Ma l’aspetto che a noi interessa di più sono i panorami culturali e umani. Ai piedi della parete si sono alternate due etnie che hanno trasformato l’ambiente a seconda delle loro esigenze di vita.
I Telem costruivano le case di fango nelle fenditure su, in alto sulla falesia. Vi salivano grazie alla fitta vegetazione e alle spesse liane che a quell’epoca colonizzavano le ripide pareti. Erano “pigmei” o cacciatori/raccoglitori, vivevano in simbiosi con la foresta e da essa traevano nutrimento e protezione dagli altri popoli circostanti.
Ma intorno al tredicesimo secolo una catena di flussi migratori proveniente da ovest portò nella zona una nuova popolazione di agricoltori: i Dogon. Trovarono nella regione un ambiente favorevole e vi si insediarono costruendo le loro capanne in mattoni di fango proprio ai piedi della parete. Non erano sufficientemente abili da arrampicarsi sulla roccia come i Telem, ma potevano approfittare della posizione rialzata rispetto alla pianura circostante per dominare il territorio e per avvistare con largo anticipo eventuali invasioni di nemici. Il loro stile di vita ovviamente non si adattava alla fitta vegetazione per cui iniziarono una grandiosa opera di disboscamento ricavando terra coltivabile e trasformando l’ecosistema in brousse, come ancora vediamo oggi. I poveri Telem si trovarono costretti a migrare verso sud seguendo la foresta in rapida ritirata.

La civiltà Dogon si poté radicare indisturbata lungo l’intera falesia. Nacquero veri e propri villaggi, letteralmente appoggiati alla roccia. Alcuni sono ancora abitati, ma la maggior parte, nelle ultime generazioni, sono stati spostati nella piana dove c’è più spazio per ospitare le popolazioni in rapida espansione demografica: ormai il pericolo di guerre è quasi scongiurato, anche se povertà e fame continuano a funestare l’esistenza di queste (nonostante tutto) allegre e spensierate genti. Le case abbandonate, grazie alla protezione dalle intemperie offerta dagli strapiombi, si possono ancora visitare e, anzi, sono una frequentata meta turistica soprattutto dopo che l’Unesco ne ha fatto un Patrimonio dell’Umanità. Più in alto, ancora spuntano qui e là le capanne dei Telem, ormai irraggiungibili. La zona, oltre a essere meta di moderne migrazioni di turisti e viaggiatori, di antropologi, geologi, volontari e cooperanti occidentali, ha iniziato a far gola a una nuova razza: l’homo rampicans.
Alla fine degli anni ’80 la forte scalatrice francese Catherine Destivelle vi si recò per aprire nuove vie sulla splendida roccia esotica del Mali. La nostra guida Bouba Guindo all’epoca era un ragazzino; ci racconta di essere stato assoldato per aiutare la bella Catherine a trasportare la pesante attrezzatura da roccia. Mentre gli rispondo che anche io sono uno scalatore (ben più scarso della mia cugina transalpina), noto che Bouba si fa più pensoso. Dopo un istante di silenzio, sente l’urgenza di esprimermi candidamente un suo dubbio: «Ero lì sotto che guardavo Catherine procedere con difficoltà e fatica lungo la parete. E pensavo che se fossi stato nei suoi panni sarei passato qualche metro più a destra dove mi sembrava molto più facile.»
Sono disarmato di fronte al suo lucido ragionamento. Questo è un vero scontro tra culture: l’innocente ingenuità africana vs l’artefatta sofisticatezza occidentale. Per spiegargli tutta la questione con completezza dovrei iniziare con l’ascesa al Mont Ventoux di Petrarca, proseguire con la salita al Monte Bianco di De Saussure, poi Whymper e Carrel, gli ultimi tre problemi delle Alpi, il sesto grado e il suo superamento, la corsa agli ottomila, il Cerro Torre, gli americani di Yosemite e il nostrano Nuovo Mattino. E ancora il free climbing, il boulder e le palestre al chiuso. Più semplicemente gli spiego che lo scopo della Destivelle era proprio quello di individuare e percorrere la via più difficile per raggiungere la cima.
Contenta lei.

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